Commento al Vangelo domenicale
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La sorte difficile del profeta non frena la Parola di Dio

14ª domenica del Tempo Ordinario
MARCO 6,1-6

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

Il racconto evangelico di oggi ha una struttura molto lineare: Gesù ritorna nella sua patria, che sappiamo essere Nazareth, il sabato entra nella sinagoga, legge la Scrittura e la commenta, come potava fare ogni adulto in Israele, e alla fine registra l’incredulità dai suoi concittadini che rende impossibile perfino il suo operare prodigi in patria. Cerchiamo ora di cogliere gli insegnamenti che questo Vangelo, apparentemente così povero di parole, ci offre.
Dopo l’insegnamento in parabole e una serie di miracoli compiuti nei pressi del lago di Tiberiade, che tolgono ogni dubbio sull’origine divina del potere di Gesù, questi ritorna nella sua patria per scontrarsi con la mancanza di fede dei suoi compatrioti che, abbiamo visto in un precedente brano evangelico di Marco, vogliono ridimensionarlo se non addirittura neutralizzarlo, com’era già avvenuto a vari profeti nell’Antico Testamento.
A Nazareth, come il solito, Gesù si reca nella sinagoga e avvalendosi del diritto che aveva ogni israelita adulto, si mette a leggere e a commentare. Gli uditori restano attoniti e questo stupore iniziale è l’atteggiamento di chi è colpito e costretto a interrogarsi, ma resta ancora neutrale, perché può approdare alla fede o all’incredulità. La sapienza di Gesù (della quale il lettore, al contrario dei concittadini di Gesù, sa che ha origine dallo Spirito Santo ricevuto nel battesimo di Giovanni Battista) e la potenza delle sue mani suscitano una reazione normale che però nel Vangelo di Marco si trasforma in interrogativi cruciali per la folla e per il lettore: qual è la loro origine? Chi è quest’uomo? La risposta non può essere che questa (come dirà Nicodemo): questo maestro viene da Dio.
Le domande che poi si susseguono sulla bocca degli astanti, sull’origine di “questa sapienza”, possono essere interpretate in due modi opposti: gli uditori vi intravvedono un’origine    divina oppure un’origine diabolica, come già avevano prospettato gli scribi venuti da Gerusalemme. La risposta apparentemente più ovvia (è di origine divina) è impedita dalla costatazione del lavoro di Gesù: «Non è costui il carpentiere (un termine greco che indica un mestiere con specializzazione di falegname, fabbro e muratore)?»,  delle umili origini e della sua parentela: «Non è costui... il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?» I termini “fratelli e sorelle” designavano la parentela in modo largo e globale. Tutto ciò evidenzia l’origine carnale di Gesù; da qui lo scandalo e un trabocchetto per la fede, un ostacolo che impedisce di credere. Lo scandalo reale è l’incarnazione di Dio in lui, scandalo che sfocia nell’incomprensione, nello scetticismo misto a sarcasmo, di chi rifiuta di vedere Dio nel quotidiano: così che «guardino, ma non vedano, ascoltino, ma non comprendano» (Mc 4,12).
La presunzione di conoscere Gesù blocca gli uditori di Nazareth sulla soglia della loro esperienza. Sono incapaci di interrogarsi in profondità, di indagare meglio l’identità del loro illustre compaesano. Con tale atteggiamento di chiusura non sono disposti ad accogliere i germi di rivoluzionaria novità che egli porta e inciampano (“era per loro motivo di scandalo”) in quegli elementi che dovevano spingerli a rivedere le loro posizioni. Il loro sbaglio consiste nell’accogliere Gesù come oggi è accolto un eroe sportivo o militare, una personalità scientifica o religiosa nella sua patria dopo un periodo di lontananza. Si vuole godere dei vantaggi della sua presenza senza lasciarsi coinvolgere con la propria vita, una personalità da sfruttare, non un salvatore da accogliere.
A questo punto potremmo rimanere molto sorpresi dell’incredulità dei concittadini di Gesù e dei suoi stessi parenti, dal momento che siamo convinti che il contatto diretto con Gesù e con i suoi segni prodigiosi avrebbe dovuto togliere ogni possibilità di dubbio sulla sua persona, convinti, come siamo anche noi, che il miracolo sia lo strumento più adeguato per risolvere ogni problema di fede. Ma il Vangelo non sembra pensarla così. Ora queste poche righe non ci permettono di addentrarci nella complessa problematica della fede e della fede nel nostro tempo e delle difficoltà che essa incontra nell’essere accolta e vissuta dai nostri contemporanei. Ci fermeremo pertanto brevemente su quanto possiamo ricavare dal testo evangelico: la difficoltà insormontabile che gli abitanti di Nazareth sembrano incontrare è quella dovuta al mestiere di Gesù, un mestiere comune e banale e quella della sua parentela: è dei nostri, è uno di noi, è uno come noi, che cosa può portare di straordinario?
Dio cammina nella realtà di ogni giorno, nella nostra realtà quotidiana, spesso povera, banale, senza sorprese e senza forti sensazioni, e per questo un Dio “semplice” sembra altrettanto inaccettabile di un Dio immenso e onnipotente e protesi alla ricerca di qualcosa fatto su nostra misura, rifiutiamo di fatto ciò che Dio mette nella nostra vita. Incontrare Cristo è la sostanza della vita cristiana, la strada per le santità e per questo mi sembra a questo punto molto centrato quanto scrive papa Francesco nella Gaudete et exsultate al numero 7: “Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità ‘della porta accanto’, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, ‘la classe media della santità’”.

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