Commento al Vangelo domenicale
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Sulla via della croce una scheggia di luce

Marco 9,2-10

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

Sulla via della croce una scheggia di luce

Da una decina di giorni siamo entrati nella Quaresima, caratterizzata per il secondo anno consecutivo dalla pandemia e dalle angustie che sta causando. Tuttavia anche in questo itinerario quaresimale, benché contrassegnato dal virus e dalle sue malsane e pluriformi evidenze, si può ritagliare un perimetro quotidiano di contemplazione e di meditazione, libero dalle piante infestanti della banalità e della superficialità e, pure, dalle ridondanti voci che ci stordiscono.
Un aiuto a riflettere e meditare sul senso della vita e della fede lo può indiscutibilmente dare l’episodio della trasfigurazione di Gesù, che nel Vangelo di Marco arriva al culmine di una sequenza narrativa che vede, tra l’altro, il primo annuncio della passione e del futuro ritorno di Gesù nella gloria del Padre. Di qui il suo valore di preludio simbolico alla risurrezione.
La trasfigurazione, straordinario quadro della liturgia di oggi, non ha niente in comune con le metamorfosi delle divinità greco-romane, con il loro cambiamento nella forma esterna o nella sostanza. Men che meno può essere interpretata come un’esaltante, apicale esperienza psicologica di Gesù. È invece un fatto reale, carico di contenuto teologico e religioso che solo la fede può decifrare e comprendere. È un’esperienza contemplativa e folgorante. È una scheggia di luce che segnerà per sempre la vita terrena di Gesù.
Essa avviene su un monte senza nome, anche se la tradizione cristiana lo identificherà col Tabor, un tozzo colle di quasi seicento metri di altezza che emerge dalla valle di Izreel nella Galilea. Lì si ode la voce di Dio. Si sente la sua definizione suprema su Gesù e la sua solenne intronizzazione: «È il figlio mio, l’amato!». L’evangelista precisa che la veste di Gesù diventa splendente, e ne sottolinea la bianchezza immacolata. Nella Bibbia la veste candida è un elemento che richiama la manifestazione di Dio.
Desta una certa sorpresa l’ingenua osservazione di Pietro: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne», che svela il desiderio del primo degli apostoli di entrare immediatamente nella beatitudine e nella gloria della Pasqua. La sua volontà sarebbe di cancellare con un colpo di spugna la quaresima della vita col suo cammino oscuro e sofferto, col silenzio di Dio, con la passione e con la morte.
La trasfigurazione è un’epifania gloriosa di Gesù, che si rivela come Messia. L’evento sul monte invita, però, ad evitare ogni forma di trionfalismo e di leggerezza nella vita di fede. Stimola a vivere l’esperienza umana e le sue immancabili fatiche non con rassegnazione, ma con speranza. Portare la croce dietro Gesù significa fare della vita un dono attraverso lo stile di servizio, di comprensione, di vicinanza, di solidarietà, di condivisione delle gioie e dei dolori degli altri. Le prove e le eventuali sconfitte non saranno mai segno di fallimento, ma, al contrario, elementi costitutivi di una vita segnata dal desiderio di seguire Gesù sia nell’ora della gioia e della luce, sia nell’ora della delusione e delle tenebre.
Pietro, figura non marginale nella giornata della trasfigurazione, ci rappresenta quando desideriamo che non ci sia anche per noi la via della croce, quando sogniamo una scorciatoia facile che ci porti subito dal monte della trasfigurazione, cioè dei momenti di luce di pace, alla Pasqua definitiva.
Come Gesù dobbiamo percorrere la valle oscura delle prove. Dobbiamo discendere nella pianura quotidiana della Galilea, pronti a salire verso il monte più alto del sacrificio, il Calvario, dove però si schiuderà la luce della Pasqua.
Nella tradizione della Chiesa d’Oriente, ogni monaco che si dedicava all’iconografia iniziava la sua arte di dipingere le icone (che era una forma di preghiera) partendo proprio dal rappresentare la scena della trasfigurazione. E ciò poteva avvenire soltanto dopo un austero deserto, che durava mesi, e che era contrassegnato dalla preghiera e dalla ricerca dell’illuminazione interiore. Tutto questo per significare, tra l’altro, che il faticoso cammino della fede si consolida con la luce delle montagne, come il Tabor, e prosegue poi nelle pianure quotidiane della vita di tutti i giorni.

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