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La ricetta della felicità secondo Simone Cristicchi

Il cantautore romano ci racconta la sua ricerca della gioia e della spiritualità

Parole chiave: Simone Cristicchi (1), Personaggi (5), Fede (56), Natale (46), Storie (23), Musica (19)
La ricetta della felicità secondo Simone Cristicchi

Che cos’è la felicità? Prova a definirla, in un’intervista esclusiva a Verona FedeleSimone Cristicchi, cantautore romano classe 1977, vincitore di Sanremo 2007 con Ti regalerò una rosa. Al Teatro Astra di San Giovanni Lupatoto (tutto esaurito e acclamante), si è esibito nell’unica data veronese dello spettacolo Happy Next. Alla ricerca della felicità, che è pure il titolo del suo ultimo libro, presentato lo stesso giorno a San Bonifacio. 

– Cristicchi, ha interpellato decine di persone, dal filosofo alla casalinga, dallo scienziato al bambino: ha trovato la ricetta della felicità?

«Non ne esiste una, ma sette miliardi di tipi diversi, quanti sono gli abitanti del pianeta. È il grande miracolo della nostra vita: ognuno di noi è un essere unico, irripetibile. Un piccolo capolavoro con la sua visione di felicità».

– Per lei, cos’è?

«È come un elettrocardiogramma: ha dei picchi molto alti e poi si torna a uno stato di normalità. Più che la felicità però aspiro alla gioia, termine usato spesso nella Bibbia, dove al contrario non viene mai utilizzata la parola felicità. La gioia è quello stato d’animo che non ha opposto, che San Francesco chiamava perfetta letizia; anche nei momenti tristi della vita, la gioia ti permette di mantenere dentro il cuore una stabilità e di pensare che il dolore si può trasformare in qualcos’altro. Io comunque sono fortunato, perché svolgo un lavoro che è pure la mia passione; oggi è cosa molto rara, purtroppo». 

– Le sue canzoni affrontano spesso dei temi sociali, dalla malattia mentale all’emarginazione, che sembrano lontani dalla felicità…

«Credo che il povero, il diverso (da chi, poi?) sia uno scandalo. Trovarsi di fronte a una persona che soffre crea un bivio in noi: scappo o la aiuto? Il mio amico don Luigi Verdi (della Fraternità arezzina di Romena, ndr) dice sempre una cosa: “A me non interessa se sei cristiano, musulmano, induista, ma se vedi un uomo in mezzo alla strada che cade, ti fermi o procedi nell’indifferenza?”. Ecco, io credo molto nella responsabilità del microfono, quest’oggetto spesso utilizzato a sproposito in tivù. Ne ho quasi timore, perché so che ha la potenza di espandere la mia voce. Per cui ho sempre cercato di mettermi al servizio di realtà che altri non vedono o non vogliono vedere». 

– Ci avviciniamo al Natale, momento che porta a un grande Incontro. Ma ci sono anche tanti piccoli incontri capaci di cambiarci la vita. A lei è successo?

«Sì, credo che ogni essere umano sia una stratificazione di memorie e di incontri. Tutto quello che ho realizzato nella mia vita e in 14 anni di lavoro artistico, credo di doverlo a un superpotere: la curiosità. Ti permette di andare oltre l’apparenza, a ciò che viene imposto. La curiosità mi ha spinto inizialmente a occuparmi in teatro di memoria storica, come la seconda guerra mondiale o l’esodo istriano; a un certo punto si è rivolta verso la geografia interiore della mia anima».

– Cioè?

«Ho capito che prima o dopo ognuno di noi deve porsi delle domande importanti. La prima di tutte è: qual è il senso della mia vita? Noi non possiamo cambiare il destino, ma possiamo dare un senso a quello che facciamo. Per me il senso è la condivisione con gli altri. E vedo che c’è un’umanità che si sta risvegliando, forse perché è soffocata dai ritmi velocissimi di ogni giorno, dalle valanghe di immagini e di stimoli che ci bombardano sul telefonino o in tv. C’è un’umanità che comincia a capire che le cose importanti sono altre».  

– La fede è una possibile risposta a questa grande domanda? 

«Assolutamente sì. È un viatico, un bel punto di partenza o di arrivo. Ricordo di essere rimasto sbalordito dalle parole delle suore di clausura che ero stato a visitare vicino a Brescia. “Tu sei credente?”, mi chiesero. “Sorelle, io sono in cammino, sto cercando qualcosa, non so neanch’io cos’è”, risposi. E loro mi dissero con umiltà: “Anche noi siamo in ricerca”. Hanno fatto una scelta così forte, eppure continuano a cercare. È questa la fede che mi piace, quella che tocca le corde dell’anima della gente, non quella di chi pensa di avere una verità in tasca». 

– Cosa le piace del Vangelo?

«Per me l’immagine più bella è il sepolcro aperto, da cui si ritorna alla luce. Una grande metafora la vita di ognuno di noi: nel nostro cammino ci sono ferite che si possono trasformare in feritoie, dove poter intravedere ancora la luce». 

– Per i suoi figli che tipo di felicità auspica?

«Che non vengano risucchiati dal mondo e mantengano sempre la lucidità. Sono ancora piccoli, ma non privi di pericoli. Quindi sono molto attento nel cercare di mantenere in vita la concretezza del fare e dell’inventare, attraverso il disegno, la musica…».

– Con un padre così dovrebbero essere facilitati. Dal punto di vista della carriera, invece, c’è un progetto che le piacerebbe affrontare?

«Nel 2020 non farò Sanremo, perché è andato molto bene il precedente, con Abbi cura di me, una canzone utilizzata a catechismo e nelle chiese, come fosse una preghiera; è stata una gioia immensa per me, mi ha stupito. In futuro vorrei scrivere qualcosa sul tema del Paradiso, sia dantesco che come concetto di elevazione dell’uomo. Dove possiamo trovare il paradiso oggi? In quest’epoca aggrovigliata, con tanti gironi infernali in cui si può cadere, abbiamo bisogno di non dimenticarci mai che esiste il paradiso. Sta a noi scoprirlo. E per farlo non dobbiamo trasformare il mondo, ma guardarlo con occhi diversi. Forse questa è la chiave della felicità…». 

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