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Immigrazione: tempo di capirla

Serie di tavoli di lavoro per analizzare sotto tutti i profili la situazione nella nostra città e provincia

Parole chiave: Immigrazione (22), Integrazione (10), Accoglienza (11)
Primo piano di una bambina dai lineamenti stranieri in ambiente scolastico con sguardo che interroga

Le statistiche più recenti dicono che, a Verona, ci sono 105.460 cittadini immigrati (vedi dati Istat per il 2017) con un incremento rispetto al 2016 di 618 persone.
Mettiamo in luce altri due dati, perché nel seguito dell’articolo risulteranno illuminanti: i nuovi permessi per asilo o per motivi umanitari sono stati 1.549, mentre quelli per motivi familiari sono stati 1.956. Poi, per chi desidera approfondire altre statistiche, si trovano sul sito del Cestim (www.cestim.it) e leggere gli altri dati.
Diciamo tutto ciò perché, mentre il dibattito sui media e sui social continua ad essere incentrato sull’arrivo o la diminuzione di persone attraverso le drammatiche rotte del Mediterraneo o dei Balcani, continuiamo a dimenticare che noi siamo chiamati a costruire relazioni con persone che vivono nel nostro territorio da dieci, venti e anche più anni e che costituiscono la maggioranza dei cittadini immigrati. Questi cittadini hanno eletto il nostro Paese a luogo della loro nuova residenza e per questo le famiglie si ricompongono.
Il come si sta camminando per realizzare una convivenza rispettosa e ugualitaria con questi cittadini che costituiscono l’11,4 per cento della popolazione della provincia di Verona, sembra interessare a ben poche persone e a non attrare l’attenzione dei media.
Eppure con queste persone abbiamo da pensare e realizzare il futuro assieme e quindi sarebbe veramente importante riflettere sul come sta andando il cammino di integrazione – alcuni preferiscono dire interazione – tra tutti noi vecchi e nuovi cittadini.
Un dato ulteriore su cui riflettere: nell’anno scolastico 2016-2017 gli alunni in provincia di Verona erano 134.854, di cui il 14,4 per cento stranieri; dei quali però il 68,8 per cento sono nati in Italia e noi non siamo riusciti a elaborare una legge sulla cittadinanza che tenga conto di questo aspetto.
Il continuo dibattere sul come fermare i flussi di immigrati attraverso il Mediterraneo ci tiene ancorati in maniera miope a una visione dell’immigrazione superficiale, stereotipata e sterile; mentre avremmo bisogno di valutare come ci stiamo incontrando e forse scontrando tra vecchi e nuovi cittadini.
Per questo motivo, dopo aver sentito il parere positivo del Vescovo, i vicari per la pastorale e la cultura hanno fatto partire un cammino di riflessione sulla realtà dell’immigrazione a tutto tondo. Il cammino è affidato nella sua realizzazione al Centro di pastorale immigrati della Diocesi. Questo lavoro di riflessione è articolato in otto tavoli che prendono in considerazione aspetti diversi della vita sociale toccati dall’immigrazione.
Abbiamo quindi il tavolo dell’aspetto religioso; della scuola e dei giovani; della sanità; della comunicazione; del diritto; dell’accoglienza dei richiedenti asilo; dell’integrazione e del lavoro. Ogni tavolo lavorerà per cercare di costruire una fotografia il più fedele possibile della situazione nella nostra provincia, per mettere in luce le criticità che ci sono e per individuare però anche delle buone pratiche già in atto.
Lo spirito che anima questi tavoli è quello della Dottrina sociale della Chiesa che trova in papa Francesco un interprete premuroso e attento in questo nostro tempo. Il cammino sarà anche aperto al contributo di tutte quelle realtà che compongono il tessuto della società veronese e quindi istituzioni, associazioni e gruppi che – a diverso titolo – sono coinvolti concretamente nei cammini di integrazione. E certamente i cittadini immigrati saranno  chiamati a dare il loro apporto a questo percorso di riflessione e non come semplici spettatori.
La conclusione sarà un convegno in cui saranno consegnati alla Chiesa e alla società civile di Verona i frutti dei diversi tavoli.
Chiaramente si tratta di un cammino impegnativo, ma necessario se vogliamo veramente prendere sul serio i cambiamenti che stanno avvenendo nel tessuto sociale del nostro territorio. Cambiamenti che chiedono a ogni credente una lettura evangelica e a ogni cittadino la responsabilità di contribuire alla realizzazione di una società rispettosa della dignità di ogni persona.
Don Giuseppe Mirandola
Direttore Ufficio Migrantes

Storie d’immigrazione storie di integrazioneLiceali vanno a conoscere il mondo in un... centro d’accoglienza

Mentre il tema dell’immigrazione continua a infiammare dibattiti politici e talk show televisivi, a Verona si fanno le prove per costruire un mondo nuovo, a partire da un luogo in cui il futuro è di casa: la scuola. La settimana scorsa, alunni e docenti dell’istituto “Lavinia Mondin” si sono dati appuntamento presso l’aula magna per un incontro aperto alla cittadinanza e dedicato al tema della diversità, dal titolo “Io, tu, noi… Storie di immigrazione”. Non una tavola rotonda su principi e politiche, ma un evento-testimonianza basato sulle esperienze dirette e concrete di accoglienza e scambio culturale tra gli studenti e le famiglie dell’istituto e una ventina di giovani provenienti dall’Africa, ma ospitati presso la casa di accoglienza “Madre Teresa di Calcutta” di Taranto.
Tanti gli ospiti presenti alla serata: dal vescovo mons. Giuseppe Zenti alle Sorelle della Misericordia; dai volontari della cooperativa “Il Samaritano” di Verona ai rappresentati del mondo della scuola, fino agli assessori, segno non scontato della vicinanza delle istituzioni ad un tema quanto mai delicato.
Ma i veri protagonisti dell’appuntamento sono stati i tanti ragazzi: quelli veronesi – smaniosi di conoscere da vicino una realtà della quale sentono spesso parlare solo in televisione –, e quelli stranieri (accompagnati dal tarantino don Francesco Mitidieri), a loro volta desiderosi di raccontare la propria esperienza di vita. Il risultato finale è stato un incontro sincero e profondo tra mondi solo in apparenza distanti, ma in realtà animati dallo stesso desiderio di felicità e futuro che infiamma il cuore di ogni giovane.
L’iniziativa, dal grande impatto educativo, si è inserita all’interno del progetto di collaborazione e scambio sorto un paio di anni fa tra il gruppo di volontariato del Lavinia Mondin, guidato da suor Andreina Artuso, e l’associazione “Noi&Voi” di Taranto, presieduta da don Francesco Mitidieri.
Andrea Di Fabio

Incontrare gli ultimi per accrescere le dimensioni del cuoreDall’Istituto Mondin a Taranto

“Il percorso educativo di un ragazzo non può prescindere dallo studio delle lingue”. Questa sentenza, ormai trita e ritrita, accompagna e rende ragione dei numerosi progetti di scambio culturale sorti nel corso del tempo tra le scuole di tutto il mondo. Per gli studenti delle classi superiori è diventata, infatti, una vera e propria consuetudine trascorrere vacanze di studio all’estero tra Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania.
Senza nulla togliere a viaggi di questo tipo, negli ultimi anni il gruppo di volontariato dell’Istituto “Lavinia Mondin” ha deciso di imboccare una strada diversa, proponendo ai propri alunni un altro tipo di esperienza: non tra i grattacieli di Manhattan o sui ponti sul Tamigi, ma a spasso per le strade di Taranto affacciate sul mar Ionio...
Tutto è iniziato un paio di anni fa, grazie a suor Andreina Artuso – Sorella della Misericordia docente nella scuola veronese – che, desiderosa di conoscere da vicino il dramma dell’immigrazione, decise di partire per Taranto. Aveva, infatti, sentito dire che nella città pugliese (e più precisamente nel quartiere periferico di Paolo VI) c’era un parroco, don Francesco Mitidieri, profondamente innamorato della sua vocazione sacerdotale e che, per svolgerla al meglio, aveva scelto di prendersi cura degli ultimi.
Attraverso l’associazione “Noi&Voi”, don Francesco costruisce ponti non solo con detenuti e persone che vivono ai margini della società, ma anche con immigrati e richiedenti asilo. Quell’anno l’intensa e vibrante esperienza di incontro e fraternità vissuta insieme ad altri membri dell’istituto Mondin segnò un solco profondo nel cuore di suor Andreina. Una volta rientrata decise quindi di organizzare una nuova attività di volontariato per l’estate successiva, coinvolgendo altri alunni e portandoli a conoscere il centro di accoglienza e spiritualità “Madre Teresa di Calcutta” di Taranto.
Sono proprio loro che, nell’incontro della settimana scorsa, hanno accolto i partecipanti e – anche se per questioni di tempo non sono riusciti a parlare – hanno messo nero su bianco la loro esperienza di incontro con i ragazzi africani. Sono in particolare tre i ricordi che hanno scelto di raccontare, quelli che più di tutti li hanno toccati.
Il primo regalo che ricevono una volta arrivati a Taranto sono le domande dei giovani migranti, interessati – forse più di loro – a conoscerli e fare amicizia. Un giorno, durante un pranzo, uno di loro si avvicina a un’alunna e le chiede: «Che cosa ti rende felice nella vita?». Un interrogativo solo in apparenza banale, ma in realtà capace di azzerare ogni distanza, abbattere ogni barriera e porre tutti sullo stesso piano. Perché, alla fine, si scopre che le differenze non sono così profonde: sono, infatti, le stesse cose a rendere piena, bella e autentica la vita di un giovane, qualsiasi sia il colore della sua pelle.
Il secondo ricordo è, invece, legato al racconto del viaggio di un ragazzo che, prima di arrivare in Italia, ha dovuto attraversare la Libia. Su un autobus tarantino, in una calda giornata estiva, il giovane decide di narrare ai suoi nuovi amici la storia della cicatrice che porta sul braccio. Dice che gliel’hanno fatta nel Paese arabo, spegnendo un ferro rovente sulla sua pelle, in un luogo in cui lui e il suo migliore amico – che purtroppo non ce l’ha fatta – ricevevano trenta frustate al giorno…
L’ultimo ricordo è legato a una partita di calcio organizzata in un campetto parrocchiale di Taranto. A seguito di uno scivolone, un ragazzo africano si fa male a una mano e una grande abrasione compare sulla sua pelle. Al termine dell’esperienza di volontariato, quello stesso giovane racconterà con orgoglio: «Sono contento di essermi fatto male alla mano, perché quando qualcuno la vedrà e mi chiederà cosa mi sono fatto, potrò rispondere che è successo mentre stavo giocando con i miei amici di Verona».
Alla fine, ascoltando i racconti degli alunni, si intuisce che, anche se in quelle settimane non sono riusciti a perfezionare la pronuncia inglese, hanno forse imparato a parlare meglio la lingua più universale e potente di tutte: quella dell’amore. [A. D. F.]

Tre persone, tre viaggi e la voglia di capire uno tsunami umanoFatica, guai, speranze di chi ora è qui

Quando si riflette sull’immigrazione, si corre il rischio di imboccare la strada dei concetti astratti e ci si ritrova a ragionare per luoghi comuni, lontani dalla vita reale. Trattato di Dublino, politiche di integrazione, hotspot, centri di identificazione: sono questi i termini che spesso si susseguono, vaghi e imprecisi, nella nostra mente, balbettati da qualche servizio al telegiornale o da un dibattito televisivo.
Quel che spesso manca, però, è il collegamento con la dimensione umana della vicenda, quella che coinvolge e interpella, scuote le coscienze e tocca nel profondo. La serata organizzata dall’istituto Mondin è arrivata, allora, a sparigliare le carte e far crollare proprio il castello di sabbia fatto di ragionamenti approssimativi, con tanta testa e poco cuore.
L’evento ha, infatti, lanciato una sfida ben precisa, quella di cambiare prospettiva. Guardare a questo tema non dall’alto o da lontano, ma dal basso e da vicino, attraverso le storie, i nomi e i volti di giovani che portano nel cuore le cicatrici di un viaggio costantemente in bilico tra inferno e paradiso. Sono stati, in particolare, tre i ragazzi che hanno deciso di dare sostanza a questa vicenda e di condividere un pezzo del proprio doloroso cammino con i partecipanti.
Kassibi, Youssuph e Ibrahim: questi i nomi dei giovani africani, richiedenti asilo, che hanno accettato la sfida di raccontare le loro pene. Neanche sessant’anni in tre, questi ragazzi hanno in realtà già scoperto tanto – se non tutto – della vita. Hanno camminato sul baratro dell’inferno per poi ritrovarsi, quasi per miracolo, catapultati in paradiso. Hanno vissuto per mesi tra sogni e delusioni, sofferenza e dolore, gioie e paure, morte e salvezza.
Tre storie diverse, come diversi sono i loro Paesi d’origine (Costa d’Avorio, Senegal ed Egitto), ma accomunate dal desiderio di una vita migliore, libera dalla schiavitù dell’ignoranza e della miseria. Kassibi, il primo ad aver parlato, ha perso il padre in tenera età e, per non finire in strada, è andato a lavorare per suo zio che, però, invece di prendersi cura di lui, lo maltrattava. La fuga, a quel punto, è stata l’unica soluzione possibile.
Youssuph, invece, è nato in un Paese del deserto, un posto incantevole e tremendo in cui, in qualunque direzione si guardi, non si vedono altro che dune di sabbia, siccità e carestie.
Ibrahim, infine, voleva lottare con tutte le forze per realizzare il suo sogno di diventare ingegnere, anche se questo lo avrebbe portato lontano dalla sua famiglia, dai suoi amici e dalla sua terra. Tutti e tre si sono lasciati dietro tutto e si sono lanciati in un viaggio che mai avrebbero pensato così rischioso. Hanno dovuto abbandonare la loro terra per giungere in Libia, il posto dal quale – così avevano sentito dire – sarebbero arrivati dritti in Europa.
In realtà, una volta giunti nel Paese arabo, si sono trovati di fronte a uno Stato senza governo e una società senza regole, in cui a dettar legge sono la violenza e il sopruso. Qui hanno dovuto subire angherie di ogni tipo, dal carcere alla tortura, fino a rischiare la vita nelle grinfie di bande criminali. Ma il desiderio di una vita migliore era troppo forte per mollare e, con il coraggio della disperazione, tra conoscenze e fortuna, sono riusciti a scappare, per poi ritrovarsi catapultati all’interno di un barcone, senza sapere se e come sarebbero arrivati dall’altra parte.
Ibrahim racconta che, nel suo, erano in 480, in uno spazio di 11 metri. Dodici giorni di onde e fame, freddo e sete. Fino a che qualcuno non li ha tratti in salvo e sono arrivati, stremati ma felici, nella loro terra promessa. Oggi, i tre giovani raccontano con fatica dolori che per mesi hanno tenuto nascosti nei loro cuori. Nel frattempo, però, nella mente e nel cuore di chi li ascolta, la parola “immigrazione” assume un altro significato: adesso, infatti, non vuol dire solo principi, politica e telegiornali; ma Kassibi, Youssuph e Ibrahim. [A. D. F.]

Immigrazione: tempo di capirla
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