Il Fatto di Bruno Fasani
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Le promesse politiche che non hanno gambe

Ebbene lo confesso: sono invidioso di coloro che hanno le idee chiare su chi votare alle prossime elezioni...

Parole chiave: Il Fatto (417), Bruno Fasani (325), Elezioni (35), Politica (43)

Ebbene lo confesso: sono invidioso di coloro che hanno le idee chiare su chi votare alle prossime elezioni. È la prima volta nella vita che mi succede questo senso di spaesamento. Che sia l’anagrafe? Il fatto è che a parole i partiti sono diversissimi, così diversi che si mangiano tra di loro perfino all’interno dello stesso partito. Ci dicono che lo fanno per difendere gli ultimi, per far volare l’Italia nel paradiso del benessere, come se non sapessimo che sono lì da una vita e che si scannano tra loro solo per paura di perdere la poltrona che ha consentito loro di vivere senza lavorare.
Ed ecco allora che vanno in piazza a fare le loro promesse e, girela e messiela, come si dice in Veneto, finiscono per dire tutti le stesse cose. Tutti lì a prometterci che ci taglieranno le tasse, che avremo tanti più soldi in tasca, che potremo comprarci quello che vogliamo, che anche l’ultimo dei pensionati comincerà a farsi le vacanze vicino a Villa Certosa, che i giovani suderanno di lavoro e per il peso della borsa con lo stipendio dentro... Magari fosse vero, dice uno, accendendo la fiammella della speranza. Poi, però, ti fermi un attimo e pensi che non ce n’è uno che sia uno che ci parli della famiglia, del fallimento educativo verso le nuove generazioni. Le baby gang impazzano in giro per l’Italia, ma a tutti fa comodo pensare che sia un problema di Napoli. Non uno che parli della scuola, del tornare ad avere insegnanti educatori e non solo trasmettitori di nozioni. Qualcuno che ci parli di servizio civile obbligatorio perché i ragazzi imparino il senso del bene comune. Diceva il filosofo Emmanuel Lévinas che l’immoralità è cominciata con Caino, quando fece la famosa domanda: sono forse io il custode di mio fratello? Riscoprire che la cultura individualistica del fregarsene è la vera immoralità del nostro tempo. Non contano più le relazioni fraterne, i rapporti sociali, quelli che raccontano il tasso di civiltà di un popolo. Come diceva il grande sociologo Bauman siamo passati dall’homo sapiens a quello consumens. Non siamo più né saggi, né produttori di beni, come era l’homo faber, ma esclusivamente consumatori. L’importante è comprare, comprare, avere più soldi per comprare. Siamo alla recita di un rosario, dove ogni grano è un acquisto, senza che ci sia mai un Pater Noster per fermarsi a riflettere su dove stiamo andando e in quale forma di schiavitù ci stiamo ficcando. Leggevo in questi giorni le parole di un grande scrittore, Aldous Huxley, morto a metà del secolo scorso, che mi sembrano quanto mai profetiche: “La dittatura perfetta avrà sembianze di democrazia, una prigione senza muri, nella quale i prigionieri non sogneranno mai di fuggire. Un sistema di schiavitù dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitù”. Il guaio è che all’homo consumens non interessa né la politica, e quindi andare a votare, e tantomeno avverte il senso dello Stato.  L’unica cosa che gli interessi è sentirsi dire da Pantalone che per tutto ci pensa lui.

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