Il Fatto di Bruno Fasani
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Campioni famosi nello sport ma un po’ meno come uomini

Un tempo era dai pugili che ci si poteva aspettare qualche uscita stonata. Tanto martellare di montanti sul cranio talvolta finiva per creare qualche problema di tipo neurologico. E allora, a fronte della testa suonata, ci stava anche la battuta stonata...

Parole chiave: Davide Astrori (1), Dani Alves (1), Sport (139), Morte (13)

Un tempo era dai pugili che ci si poteva aspettare qualche uscita stonata. Tanto martellare di montanti sul cranio talvolta finiva per creare qualche problema di tipo neurologico. E allora, a fronte della testa suonata, ci stava anche la battuta stonata. Il fatto è che dagli sportivi ci si aspettano sempre parole e comportamenti esemplari, figli come siamo di quel detto che vorrebbe una mens sana in corpore sano. E poi dallo sportivo ci si aspetta che sia un testimone di ideali e comportamenti nobili, per contagiare positivamente i propri tifosi. Sappiamo che non sempre questo succede nella vita privata dei cosiddetti campioni, dove ognuno è figlio del proprio tempo nel bene e nel male, ma talvolta nemmeno in pubblico…
Domenica scorsa la morte improvvisa di Davide Astori, capitano della Fiorentina, ha impietrito l’Italia intera. Solo il circo Barnum elettorale ha distratto dal fermarsi a decifrare il pianto morale di tanti di noi. Si piangeva uno sportivo rubato alla vita nel pieno della sua giovinezza. Una ingiustizia anagrafica, che va a sommarsi all’ingiustizia verso una bambina di due anni che crescerà sentendosi dire che suo padre è stato un grande sportivo amato e stimato, ma senza portare le tracce della sua presenza nei solchi della propria esistenza. Una ingiustizia della vita, come ne succedono tante analoghe. Se quella di Astori assume un carattere particolare non è perché ci siano morti di serie A e di serie B, ma più semplicemente perché la visibilità mediatica della morte di alcuni personaggi ha il potere di catalizzare i sentimenti della gente. Così come per i miracoli, anche la morte di un personaggio pubblico non va analizzata in sé, quanto per il suo potere di mettere sotto i raggi X l’animo collettivo di un popolo. È la pietas che improvvisamente si risveglia e si interroga a 360 gradi sul senso della malattia e del morire, sugli affetti familiari lacerati, ma anche sul valore del vivere in un certo modo piuttosto che in un altro. Astori non era solo un bravo calciatore. Era, prima ancora, un bravo uomo, uno sportivo di talento, di quelli che non hanno bisogno di andare in maschera alla fabbrica dei tattoo, per ritagliarsi un angolo di visibilità sulla scena dell’effimero.
Ecco perché l’uscita di Dani Alves, terzino un tempo alla Juventus e ora al Paris Saint-Germain, ci sembra quanto di più squallido si potesse dire: «Non sono logorato dal dolore. Ogni giorno perdono la vita migliaia di bambini in tutto il mondo, vite di cui non si interessa nessuno. Dobbiamo morire tutti prima o poi, siamo di passaggio».
Nel romanzo Per chi suona la campana, Hemingway sostiene che ogni rintocco a lutto è lì a ricordarci che quella campana parla a noi, perché la morte ci tocca da vicino, anche se è quella di uno sconosciuto. Liquidarla come fatto che non ci riguarda solo perché una morte vale l’altra non è opinione da sportivo. Più amaramente è opinione da uomo di bassa caratura.

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