Il Calciastorie
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Ma il razzismo non è folklore

Meglio giocare a calcio che andare in guerra. Per questo motivo nel 1916 in Sud America si sta meglio che in Europa. Il calcio richiama già migliaia di appassionati e Isabelino Gradín è un artista del gol. Qualche decennio dopo, un certo Pelè dirà di averlo ammirato tanto.

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Meglio giocare a calcio che andare in guerra. Per questo motivo nel 1916 in Sud America si sta meglio che in Europa. Il calcio richiama già migliaia di appassionati e Isabelino Gradín è un artista del gol. Qualche decennio dopo, un certo Pelè dirà di averlo ammirato tanto. Isabelino è amato e odiato; c’è chi lo vuole in squadra e chi, invece, non vuole saperne di lui. Eppure è forte e a 18 anni è già nelle fila del Peñarol, la più importante squadra dell’Uruguay. Un Paese che, almeno nella prima metà del secolo, sarà tra le potenze del calcio mondiale. Lui, in Nazionale, ci arriva subito. Nella prima Copa America, all’esordio, rifila una doppietta al Cile. Molti tifosi avversari protestano, indignati: Gradín, sostengono, non avrebbe dovuto giocare. Ma il torneo va avanti e arriva il Brasile: l’Uruguay vince 2-1 e ancora una volta c’è lo zampino di Gradín, che segna il gol del pareggio. Di nuovo l’opinione pubblica è divisa tra chi lo vorrebbe in campo e chi non può sopportarlo. Ma qualcosa sta cambiando, e tre anni dopo, sempre contro il Brasile, molti tifosi “carioca” tiferanno per lui. Già, perché Isabelino è nero, nato a Montevideo ma nipote di schiavi africani arrivati dal Lesotho, in Africa del Sud, come racconta Lamberto Gherpelli nel libro Che razza di calcio. Gli era andata bene, tutto sommato, perché l’Uruguay era un Paese più tollerante di altri. Certamente più del Cile e più del Brasile, che solo negli anni ’30 ammetterà giocatori di colore. Tra questi, a distanza di quarant’anni dalle gesta di Gradín, anche Pelè, che certamente bianco non era. È bello pensare che ci possa essere un filo di continuità tra “O Rey” e Isabelino, tra il più forte di tutti i tempi e il suo mito. Di certo i gol di Gradín hanno dato un calcio al razzismo. Così come faranno, qualche tempo dopo, gli scatti di Jesse Owens, protagonista assoluto alle Olimpiadi di Berlino. Non abbastanza, però, per spazzare l’idea malata della “razza inferiore”. Perché non sono sufficienti le evidenze dei gol di Isabelino, delle medaglie di Jesse, dei traguardi che l’umanità ha raggiunto grazie a persone di colore per togliere di mezzo discorsi stupidi e pericolosi. Capita ancora, di tanto in tanto, di vedere giocatori africani trattati come scimmie. È scandaloso quando tutto questo non scandalizza e viene confuso con manifestazioni folkloristiche del tifo.

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