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Pastorale salviniana

E adesso agli italiani chi glielo spiega? In politica pensavamo di avere già visto di tutto. E invece no. Non ancora. Siamo qui ancora basiti dello scontro istituzionale verificatosi dopo l’irremovibile decisione di Lega e M5Stelle sul nome del ministro dell’Economia, e il gran rifiuto del presidente della Repubblica...

Parole chiave: Editoriale (380), Renzo Beghini (62), Politica (43), Governo (17)

E adesso agli italiani chi glielo spiega? In politica pensavamo di avere già visto di tutto. E invece no. Non ancora. Siamo qui ancora basiti dello scontro istituzionale verificatosi dopo l’irremovibile decisione di Lega e M5Stelle sul nome del ministro dell’Economia, e il gran rifiuto del presidente della Repubblica.
Aver fatto saltare tutto dopo quasi tre mesi, affidare ad un governo di servizio il compito di preparare le elezioni in autunno prolungando così la crisi del Paese, ha il senso di una grave sconfitta. Per tutti.
Ci sono voluti ottantaquattro giorni ai due vincitori del 4 marzo per stendere il famoso “contratto”, e per sottoporlo all’approvazione degli iscritti tramite la Rete e i gazebo. Ottantaquattro giorni per accapigliarsi su chi, tra Salvini e Di Maio, dovesse ottenere l’incarico, e alla fine per concordare – dopo i veti reciproci – sul nome di Giuseppe Conte. Un “premier esecutore”, non eletto, sconosciuto e senza esperienza. Un crescente tira e molla che è culminato con l’indicazione al ministero dell’Economia del “sostenitore di una linea, più volte manifestata, che potrebbe provocare, probabilmente, o addirittura inevitabilmente, la fuoruscita dell’Italia dall’euro”.
Quello iniziato tra Salvini e Di Maio da una parte, e il presidente della Repubblica dall’altra, è uno scontro istituzionale del tutto nuovo. Non perché nessun presidente prima di Mattarella si sia mai opposto alla nomina di un ministro. La storia della Repubblica conta tre precedenti. La nomina dei ministri non è una mera formalità. Il presidente l’aveva annunciato: «Non sono un notaio. Non accetto imposizioni». Mattarella l’ha detto e l’ha fatto.
Ma è nuovo il significato politico dello scontro. È nuovo l’equilibrio tra poteri, l’idea di autorità e di legittimazione politica che il conflitto riproduce. Nelle elezioni del 4 marzo, assommando le percentuali di voto, Lega e M5S hanno ottenuto più del 50% dei consensi, con 347 seggi alla Camera e 167 al Senato. I numeri per formare un governo c’erano e ci sono ancora tutti.
Chi glielo va a spiegare agli italiani che, pur avendo i numeri, non è possibile governare? Chi glielo spiega che il loro voto, pur avendo raggiunto la maggioranza non è servito a fare un governo. Chi glielo spiega che, al posto di un governo Lega-M5Stelle, ci potrebbe essere un governo che, prima ancora di cominciare, è già defunto perché – al contrario – non ha i numeri?
Ma allora la legittimità per governare, se non viene dal consenso popolare che si esprime democraticamente tramite il voto, da dove viene? Chi decide se un governo è legittimo oppure no? Lo decidono gli elettori o chi altro? E chi altro? Non è difficile immaginare che questi temi, insieme alla tensione (indubbiamente cercata e voluta) tra sovranità e comunità, tra Paese reale ed Europa solo nominale, saranno centrali nel dibattito dei prossimi mesi di campagna elettorale permanente.
Tutti noi – e non solo i partiti – dovremo recuperare un maggior senso di responsabilità politica. A cominciare da Lega e Movimento 5 Stelle. Con la proposta di un ministro “diverso” per l’economia. Ma attenzione al disappunto e all’insoddisfazione che provengono dal Paese. Qualcuno glielo dovrà spiegare perché il nostro Paese non è una democrazia diretta, ma rappresentativa. Perché non è sufficiente il solo consenso.
Altrimenti i sovranisti e i populisti (che poi sono sempre gli stessi) torneranno. E più numerosi di prima. Con numeri tali da imporre non solo il ministro dell’Economia Tal dei Tali. Ma ben altro, se qualcuno non spiegherà agli italiani perché quel ministro non poteva fare il ministro.

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