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Lavoro giusto non fame di vento!

«Il lavoro comincia col lavorare bene, per dignità e per onore. La dignità del proprio lavoro si radica nel saper dare valore a ciò che si fa e a come lo si fa». È un passaggio del discorso che papa Francesco ha rivolto agli operai dell’Ilva di Genova. Ma quale valore l’uomo di oggi assegna al proprio lavoro?

Parole chiave: Editoriale (377), Renzo Beghini (62), Lavoro (62)

«Il lavoro comincia col lavorare bene, per dignità e per onore. La dignità del proprio lavoro si radica nel saper dare valore a ciò che si fa e a come lo si fa». È un passaggio del discorso che papa Francesco ha rivolto agli operai dell’Ilva di Genova. Ma quale valore l’uomo di oggi assegna al proprio lavoro?
Il libro del Qohelet ci aiuta a riformulare la domanda di senso per il lavoro di oggi e di sempre: “Ma perché tutta questa fatica per nulla? A chi e a che cosa serve questo folle lavoro che mi sta consumando la vita?” (4,8). Se potessimo leggere il diario dell’anima del nostro tempo, di simili provocazioni, di interrogativi che provocano profondi esami di coscienza, ne troveremmo a milioni. La nostra civiltà si è costruita attorno alla condanna dell’ozio, e ha costruito una cultura della ‘vita buona’ fondata sul lavoro, istituendo così un legame fondamentale tra dignità umana, democrazia e lavoro.
Ma quando lavori “lascia libera una mano perché il suo palmo possa essere riempito dalla calma, dal riposo, dalla consolazione”. Le due mani dell’uomo non devono essere impegnate nella stessa attività: se è stolto colui che le lascia entrambe inerti è altrettanto folle chi le occupa col solo lavoro frenetico. Il frutto del lavoro e dell’industria può essere goduto solo se lasciamo uno spazio libero di non-lavoro, se un palmo è vuoto e può accogliere il frutto conquistato dall’altro. È folle chi non lavora mai, più folle chi lavora sempre.
Perché – continua il Qohelet – “la vita è fumo e fame di vento anche per il troppo lavoro. Il lavoro è buono solo nei suoi giusti tempi”. Quando scrive, era ancora molto viva l’esperienza dell’Egitto e di Babilonia, dove gli ebrei diventati schiavi lavoravano sempre, con entrambe le mani. Soltanto gli schiavi e coloro ridotti in schiavitù dall’invidia e dall’avidità si affannano sempre e solo per il lavoro. È difficile dire se oggi soffre di più il disoccupato che incrocia innocente le braccia o il manager superpagato che trascorre il Natale in ufficio perché il lavoro poco alla volta gli ha mangiato, come tutti gli idoli, anima e amici. Sofferenze diverse, entrambi molto gravi, ma la seconda non è pesata come follia, vento o vanitas. Anzi, spesso la nostra cultura la favorisce e ne fa un modello da inseguire.
E ancora “tornai a considerare quest’altra vanità sotto il sole. C’è chi è solo, non ha nessuno, né figlio né fratello. Eppure senza fine si affatica, né il suo occhio è mai sazio di ricchezza”. Il Qohelet ci svela un rapporto profondo, radicale e tremendo tra solitudine e lavoro. Ci presenta un uomo solo, che lavora troppo, sempre, e la molta ricchezza che guadagna non lo sazia mai. La ricchezza che non può essere condivisa non sazia, non appaga il nostro cuore. Alimenta soltanto la fame di vento, e produce il grande auto-inganno che la ricchezza in sé o l’aumento del patrimonio potranno domani saziare l’indigenza di oggi. E la giostra continua a girare, sempre più a vuoto.
Infatti, “meglio due di uno solo, perché c’è un salario buono per la loro fatica” (4,9). Il salario buono è quello che può essere condiviso. Il senso vero della fatica del lavoro è avere qualcuno che attende il nostro salario. Il salario senza un orizzonte più grande dell’io è come il sale senza pasta da insaporire. È quello di casa il tempo giusto del buon salario. L’accumulare ricchezza senza che ci sia qualcuno che con questa ricchezza deve crescere, abitare, studiare, essere curato, ... è fame di vento, è cibo che non sazia, anche quando è consumato nei ristoranti a cinque stelle. Il nostro tempo sta perdendo il giusto tempo del lavoro anche perché ha spezzato il legame tra lavoro e famiglia. Quando i figli non ci sono, quando l’orizzonte del lavoro è troppo corto, è difficile trovare una risposta per la nuda domanda di Qohelet.
Cercare qualità e dignità del lavoro è diventare consapevoli che la lotta alla fame di vento e alla vanità da lavoro comincia anzitutto dentro di noi. È mettere al centro dei rapporti di lavoro non lo sfruttamento, ma il rispetto e la collaborazione; non la speculazione, ma la produzione integrale di qualità e valore; non l’avidità per ciò che non sazia ma il desiderio del settimo giorno nella costruzione del nostro futuro comune.

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