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La città nascosta dei 55mila "invisibili"

L’immagine stereotipata, presente nell’immaginario collettivo, è quella del clochard ricoperto da un pesantissimo cappottone persino nel cuore dell’estate, con ai piedi improbabili scarponi oppure scalzo o, ancora, con strati di carta e di cellophane tenuti insieme dallo spago a ricoprire le estremità inferiori. E talora con in mano un cartone mezzo vuoto di vino mentre proferisce frasi sconclusionate. Ma vi è pure una povertà estrema, esteriormente meno individuabile e più dignitosa, non per questo meno reale...

Parole chiave: Clochard (1), Editoriale (380), Alberto Margoni (64)

L’immagine stereotipata, presente nell’immaginario collettivo, è quella del clochard ricoperto da un pesantissimo cappottone persino nel cuore dell’estate, con ai piedi improbabili scarponi oppure scalzo o, ancora, con strati di carta e di cellophane tenuti insieme dallo spago a ricoprire le estremità inferiori. E talora con in mano un cartone mezzo vuoto di vino mentre proferisce frasi sconclusionate. Ma vi è pure una povertà estrema, esteriormente meno individuabile e più dignitosa, non per questo meno reale. I dati dell’Istat e del Fio.psd (la Federazione degli organismi per le persone senza dimora) riferiti al 2014, in base ad un’indagine condotta in 158 comuni, stimano in 55mila coloro che vivono in stato di esclusione e grave marginalità, dei quali 30mila si trovano in strada da più di quattro anni e quindi vengono considerati cronici. In percentuale sono il 2,43‰ degli iscritti all’anagrafe, mentre nel 2011 erano il 2,31‰. In pratica è un’altra città italiana che cresce ogni anno di mille unità. L’identikit di queste persone bisognose è presto delineato: uomo (85%), straniero (58%), 45 anni l’età media, vive prevalentemente in una città metropolitana (quasi 4 su 10 a Milano e Roma). Molteplici e spesso congiunte le cause di questa grave marginalità: in primis la rottura delle relazioni famigliari (separazioni e divorzi), quindi l’instabilità occupazionale. Solo il 2,3% dichiara infatti di avere un lavoro stabile ma lo stipendio medio si aggira sui 300 euro.
Mentre il Governo, attingendo da fondi europei, annuncia lo stanziamento di 100 milioni in sette anni per incrementare i servizi, è da ammirare l’opera di enti e associazioni caritative impegnati ogni giorno non solo ad assicurare a queste persone il necessario per sopravvivere, ma anche, dove possibile, a prendersene carico accompagnandole verso una ritrovata autonomia.
Si spera che la già folta schiera dei senzatetto non abbia ad incrementarsi ulteriormente con qualche piccolo risparmiatore rimasto in mutande a causa dell’acquisto di obbligazioni subordinate di istituti che sarebbero stati meritevoli di… scarso credito.
Ma la situazione dei senza dimora è solo la punta dell’iceberg. Secondo Coldiretti sono più di 6 milioni (il 12,6% della popolazione) gli individui che non si possono permettere un pasto proteico adeguato ogni due giorni. Un dato che fa a pugni col fatto che ogni italiano butta nella spazzatura ogni anno 76 chili di cibo. Insomma: chi troppo e chi niente.
L’apertura giovedì scorso da parte di papa Francesco della “Porta Santa della carità” nell’ostello della Caritas alla stazione Termini diventa emblematica. Dinanzi a situazioni di marginalità e di bisogno, vivere la misericordia, tanto più in questo Anno Santo, diventa per il cristiano una chiamata a dare il cuore a chi è misero. Non solo aprendo il portafoglio o, meglio, mettendosi in gioco in prima persona, ma ancor prima evitando il giudizio che ci chiude, rendendoci impermeabili dinanzi a vicende spesso drammatiche dove le povertà (non solo quella economica) e le fragilità si assommano. Vivere la misericordia significa dunque anzitutto prendersi a cuore, passare dal “non mi riguarda” al “mi interessa”, sull’esempio di Cristo nato per noi, fattosi pane spezzato per noi.

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